Comune di Reggio Emilia

Cinema Noir americano (1940-1960)

 



1. Di cosa parliamo quando parliamo di Noir

2. Lo specchio oscuro del cinema americano

3. Filmografia (per la stampa fronte retro)
















1. Di cosa parliamo quando parliamo di Noir

 

 

E' sempre stato molto più facile riconoscere un film noir che non definirlo” (James Naremore).

Se non è mai semplice tracciare con precisione le caratteristiche che contraddistinguono un genere letterario o cinematografico, questa difficoltà diventa quasi insormontabile se parliamo di Noir. Non per nulla molti critici – a partire da Paul Schrader – non lo considerano un vero genere ma più una categoria aleatoria utile alla critica cinematografica per indicare una serie di film prodotti da Hollywood dal 1941 al 1958, accomunati da tematiche, stile e – soprattutto – atmosfere.

Paradossalmente il noir - pur non “esistendo” - ha dimostrato una non comune capacità di sopravvivenza e longevità, anche perchè nella storia del cinema hollywoodiano sono stati vari i generi, anche molto più popolari, a scomparire dagli schermi: dal musical al melodramma, dal peplum al western, tuttalpiù soggetti a sporadici e fallimentari tentativi di rinascita che, molto spesso, hanno più il sapore ironico del postmodernismo che quello di una sincera passione per le opere originarie. Al contrario il noir è vivo e abita tra noi in tanti film che guardano ai modelli classici o, più spesso, che ne utilizzano le atmosfere per contagiare film appartenenti a generi differenti (e in questo senso Alessandro Agostinelli ha proposto il concetto di surgenere).

Eppure esiste anche la data della morte del noir: il 1958 ovvero l'anno di produzione de L’infernale Quinlan di Orson Welles, l'ultimo grande film del genere. I motivi che ne decretarono la fine furono vari: dall'utilizzo del colore al superamento dei traumi sociali provocati dalla seconda guerra mondiale, dalla sconfitta dell’esperienza del New deal progressista all’esplosione della guerra fredda - con la relativa inquisizione maccartista che decimò quella generazione di registi e sceneggiatori che aveva dato vita al noir. Le ferite della caccia alle streghe della Commissione per le attività antiamericane furono così profonde che per anni nessuno osò riproporre un cinema così pessimista, politicamente critico ed esplicitamente violento. Occorrerà attendere la fine degli anni Sessanta e la nascita della New Hollywood per rivedere film che, in considerazione della coeva situazione politica (la new left), ripensassero a quella esperienza, condividendone idee, stili e toni, naturalmente aggiornati alla nuova realtà americana. Ecco allora film che poi sarebbero stati definiti Neo-noir o Post-noir quali Il lungo addio di Robert Altman (1973), Chinatown di Roman Polanski, La conversazione di Francis Ford Coppola (1975) o Taxi Driver di Martin Scorsese (1976) e scritto proprio da Paul Schrader. Ma questa è tutta un’altra storia.

 

Ritornando al tema iniziale è curioso constatare che i primi ad accorgersi di ciò che di nuovo stava accadendo nel cinema hollywoodiano degli anni Quaranta/Cinquanta furono i francesi. Visionando i film americani che non avevano potuto vedere durante la guerra si accorsero che quelle opere apparivano più oscure, più violente, più disperate di tutto il cinema che le aveva precedute. Ad esplicitare e razionalizzare questa sensazione furono i critici Raymond Borde e Etienne Chaumeton che nel 1955 pubblicarono Panorama du film noir américain (1941-1953), un testo che tentava di interpretare quella nuova atmosfera che dominava il cinema statunitense. Anche se coniato dal critico Nino Frank nel 1946, il termine Noir fu ripreso dai due autori per definire quei film, anche per associazione con la Serié noir della Gallimard che aveva iniziato a pubblicare anche in Francia quei romanzi hard-boiled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler che furono determinanti per la nascita del genere cinematografico in questione.

Negli anni successivi apparvero altri studi critici interessanti (come l'analisi tassonomica elaborata da Raymond Durgnat nel 1970), ma per una comprensione vera e completa del noir occorre partire dalla lettura del seminale saggio Notes on Film Noir dello sceneggiatore e regista americano Paul Schrader, che ne tratteggia i confini temporali, tematici e politici. Sarà perciò da queste “Notes” che partiremo per delineare le caratteristiche di questo genere/non genere cinematografico.



 

 

2. Lo specchio oscuro dell'America

 

Prima di iniziare a descrivere i tratti salienti del noir classico americano è necessaria una premessa chiarificatrice: le tematiche, gli stili, le trame, i protagonisti delle opere che qui trattiamo sono spesso così eterogenei tra loro da apparire – non a torto - contraddittori. Visionando i film da noi proposti si troverà l’”infatuazione” degli autori e produttori per la psicoanalisi e l’onirismo espressionista (Dietro la porta chiusa o Il segreto di una donna) ma anche per l’estremo realismo di La città nuda o Il bacio della morte; si constaterà le propensione alle sperimentazioni visive tipiche delle produzione RKO (Quarto potere) quali l’uso delle ombre e del chiaroscuro (Sui marciapiedi, La scala a chiocciola), la subjective camera (La donna nel lago, La fuga), le inquadrature inusuali, spesso oblique (Lo sconosciuto del terzo piano) e la ricerca di vertiginose profondità di campo (Ho amato un fuorilegge), così come la classica linearità visiva di Giungla d’asfalto o Il Grande caldo; e ancora le innovazioni narrative quali il flashback nel flashback (I gangster) o l’utilizzo della voce extradiegetica (Viale del tramonto, La città nuda) ma anche, all'opposto, sceneggiature che rimandano ai classici crime movies degli anni Trenta (La strada del mistero).

Non stupisce che tutto ciò abbia portato ad analisi e interpretazioni spesso tra loro inconciliabili, ma è solo attraverso l'approfondimento così articolato e stratificato che possiamo comprendere che ciò che troviamo in questi film non è altro – come disse lo Spade del Mistero del Falco – la materia di cui sono fatti i sogni.


 

a. Cronologia

La data ormai riconosciuta della nascita del Noir è il 1941, cioè l’anno di produzione de Il mistero del falco di John Huston, mentre quella terminale coincide con l’apparizione de L’infernale Quinlan di Orson Welles (1958). Naturalmente appena stabiliti tali confini temporali vi sono stati studiosi che hanno cercato di ampliarli (William Everson anticipa la nascita almeno al 1929, comprendendo perciò il periodo dei gangster movies) o ridurli (Pierre Sorlin posticipa l’inizio al 1945 e anticipa la fine al 1957). Da parte nostra possiamo dire che già nel 1940 un film come Lo sconosciuto del terzo piano di Boris Ingster presentava molte delle caratteristiche tipiche del noir (il simbolismo onirico, le innovazioni visive, l’ambientazione metropolitana, il cittadino qualunque accusato ingiustamente, ecc.) e che per questo motivo abbiamo deciso di anticipare a quell’anno l’inizio della nostra selezione di film.



b. Realismo e onirismo
 

Per descrivere una delle caratteristiche che più di altre contraddistingue un film noir potremmo usare l'ossimoro “realismo onirico”. Le basi di questa innovazione narrativa vanno cercate nell’emigrazione europea tra le due guerre che portò negli Stati uniti non solo molti professionisti del cinema ma anche alcuni discepoli di Freud, favorendo la diffusione delle teorie psicoanalitiche (anche se in forma semplificata). In particolare sembra che i produttori cinematografici ne fossero così affascinanti da abbonarsi alle riviste di settore per cogliere nuove suggestioni da inserire nei plot dei propri film. E quale genere cinematografico poteva essere maggiormente influenzato da questa nuova tendenza se non quello che trattava i temi della deviazione criminale, della colpa e innocenza, della sconfitta e perdita del sé? Ma se oggi le soluzioni psicoanalitiche di quei film appaiono troppo semplicistiche (si veda il colpo di scena finale di Dietro la porta chiusa e Io ti salverò oppure il puritano senso di colpa di Gene Tierney in Il segreto di una donna) la propensione alla visualizzazione di incubi, di ambienti onirici, di ombre e specchi dal forte significato metaforico, è una caratteristica che rende tuttora il noir un genere affascinante e, al tempo stesso, disturbante. Il pessimismo a tratti disperato che impregna sceneggiature e fotografia è simboleggiato dai vicoli notturni dal selciato bagnato riflettente la luce di qualche lampione distante, dalle stanze male illuminate, dalle silhouette dei palazzi incombenti e minacciosi delle metropoli, dalle ombre e dal buio che fagocitano i protagonisti. Un film noir non può prescindere da quel senso di angoscia che tutto ciò trasmette allo spettatore grazie sia all'imprescindibile maestria dei direttori della fotografia (tra i quali i grandissimi John Alton, Nicholas Musuraca e William Daniels), sia ai limiti imposti dai bassi budget tipici delle produzioni destinate alla seconda proiezione della serata (il cosiddetto B-movie): tali ristrettezze economiche spinsero gli autori a cercare soluzioni visive inedite, riuscendo così a produrre capolavori indiscutibili e originali quali Detour di Ulmer, girato in una sola settimana e con tre sole location, che propone una delle più grandi riflessioni sull'ineluttabilità del destino sullo sfondo di un’America alienante e moralmente corrotta (e infatti nessun personaggio può definirsi positivo - ma forse nemmeno completamente negativo).

Così le claustrofobiche rappresentazioni degli interni spogli e impersonali che sembrano intrappolare i personaggi in un presente nel quale il peso del passato è opprimente e fatale (anche se spesso mai esplicitato) sono il risultato della necessaria riduzione di set e investimenti, ma anche la geniale invenzione di nuove iconografie di vite senza futuro, segnate da un destino che non hanno scelto ma a cui non possono fuggire, nonostante tutti i loro vani tentativi. 

 



c. Origini e influenze
 

Lang, Siodmak, Wilder, Preminger, Dassin, Lubitsch, Brahm, Litvak, Freund, Ophuls, Sirk, Maté, Bernhardt, Ulmer, Dieterle, Zinneman, Alton, De Toth: questi sono solo alcuni dei cineasti europei che emigrarono a Hollywood tra le due guerre mondiali. Un'emigrazione non solo massiccia ma anche decisiva per lo sviluppo del cinema statunitense e per la nascita del noir, che si formò dall'amalgama tra l’espressionismo tedesco e il tipico realismo delle produzioni americane. Il noir nasce perciò avendo nel proprio DNA l’uso delle riprese inusuali e oblique, le scenografie distorte e oniriche, la concretizzazione visiva degli incubi dei protagonisti, ma anche la ricerca di una rappresentazione realistica del crimine come avveniva nei romanzi hard-boiled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler – storie spesso utilizzate per le trame dei film noir, a partire proprio da Il mistero del falco.

Chandler stesso nel suo breve saggio La semplice arte del delitto afferma che “Hammett ha tirato fuori il delitto dal vaso di cristallo e l’ha buttato in mezzo alla strada. [… Egli] ha restituito il delitto alla gente che lo commette per ragioni concrete, e non semplicemente per fornire un cadavere ai lettori. E questo delitto lo ha fatto compiere con mezzi accessibili, non pistole da duello intarsiate, curaro e pesci tropicali. Ha messo sulla carta i suoi personaggi com’erano e li ha fatto parlare e pensare nella lingua che si usa, di solito, per questi scopi.”.

Il noir aveva ben presente l’esperienza del cinema gangster degli anni Trenta e della sua nuova visione del criminale, la cui complessità psicologica aveva favorito il grande interesse del pubblico. Ma con le censure imposte dal Codice Hays i gangster-movie finirono depotenziati, riducendosi al semplicistico scontro tra male (il criminale) e il bene (il poliziotto), senza più quelle sfumature di grigio che ne avevano decretato il successo.

Il noir ereditò la sfida di rendere il genere poliziesco nuovamente interessante nonostante i limiti censori; la soluzione trovata si basò proprio sull’apporto dell’emigrazione tedesca e dell’influenza delle produzioni horror dell’Universal: divenne così possibile rappresentare le paure psicologiche, i drammi sociali e lo stato di smarrimento che tutta l’America provava dopo la crisi economica del ’31, la nascita dei fascismi in Europa e l’approssimarsi dell’entrata in guerra.


 

d. Stile e tecniche
 

Alla fine degli anni Trenta le nuove pellicole Eastman Kodak a 160 ASA (contro i 32 ASA del decennio precedente), le innovative lampade flood e gli obiettivi trattate con fluoruro di magnesio, aumentarono notevolmente la luminosità delle riprese e la profondità di campo, permettendo grandi modifiche nelle scelte dell’illuminazione delle scene. Prova ne sia l’utilizzo innovativo che Orson Welles e Gregg Toland ne fecero in Quarto potere, indicando la via che molti direttori della fotografia avrebbero poi seguito per il loro lavoro nei film noir, primo tra tutti il grandissimo Alton i cui intensissimi neri rimangono a tutt’oggi ineguagliati.

Le nuove tecnologie permisero così ai registi di sperimentare ed estremizzare le scelte stilistiche, avvolgendo il cinema noir in una dimensione oscura e drammatica che nessun film poliziesco aveva mai espresso. Come sottolinea Schrader, “spesso gli attori e l’ambiente sono illuminati nello stesso modo. L’attore sovente è nascosto in quanto è inserito in una raffigurazione realistica della città notturna: ovviamente mente parla il suo volto è spesso velata da ombre. […] Quando l’ambiente ha un’importanza pari a quella dell’attore, se non addirittura superiore, si viene naturalmente a creare un’atmosfera di fatalità che non lascia spazio alla speranza”


 

e. Personaggi e temi
 

Negli anni che vanno dal 1941 al 1946 lo stile dei film noir può essere ancora definito classico: le riprese sono effettuate in studio e l’azione è secondaria rispetto ai dialoghi - spesso arguti e taglienti (si pensi a Il mistero del falco, Il grande sonno, Vertigine, ecc.). Ciò era la conseguenza di due fattori molto diversi tra loro: la scelta da parte dei produttori di registi e attori non affermati (quando girarono Il mistero del falco John Huston era al suo primo lungometraggio e Bogart era considerato un attore ormai al tramonto) e l’introduzione del nuovo personaggio cardine di tutta la letteratura cosiddetta hard-boiled: l’investigatore privato. In particolare un grande successo arrise a Philip Marlowe (creato da Chandler e protagonista di sei opere appartenenti al ciclo di nostro interesse) e a Sam Spade (di Hammett, con “solo” quattro apparizioni), veri archetipi di quei detective che inondano i romanzi e i film polizieschi ancora ai giorni nostri: lupi solitari ma con un debole per le clienti affascinanti (e spesso infide), cinici ma con un fondo romantico che li condanna a commettere troppi errori, con un senso della legalità molto personale ma sicuri di essere dalla parte della giustizia. Pur innovando la figura dell'investigatore, le trame che li coinvolgevano erano spesso articolate e complesso, costringendo registi e sceneggiatori a dedicare molte scene all'illustrazione della storia. A tal proposito esiste un aneddoto che coinvolge Howard Hawks: poiché sul set de Il grande sonno nessuno capiva chi avesse ucciso l'autista degli Sternwood (o se magari si fosse suicidato), venne chiesto un chiarimento a Leigh Brackett, una delle sceneggiatrici. Poichè nemmeno lei ne aveva idea fu inviato un telegramma a Chandler, l'autore del romanzo, perché chiarisse il mistero; e lo scrittore rispose che purtroppo non lo sapeva nemmeno lui!

 

Se c'è il detective privato allora ci deve essere una dark lady, ovvero una donna affascinante, sessualmente sfrontata e terribilmente pericolosa che coinvolge il protagonista in un gioco criminale che lo (li) condurrà alla rovina. Una figura tanto interessante quanto dibattuta; e sulla quale - proprio per questo - non possiamo soffermarci, invitandovi alla lettura del breve ma convincente saggio Spider woman di Janey Place in I colori del nero.

 

Nel dopoguerra il noir diventa veramente oscuro, soprattutto nella rappresentazione della realtà della metropoli, della corruzione politica, della violenza criminale, dell’ineluttabilità di un destino impietoso e amorale, che non risparmia nemmeno il cittadino “innocente”. Come scrive Alessandro Agostinelli in Arcobaleno noir “ Il male nel noir è sociale, permea di sé la collettività intera”. E’ il periodo d’oro anche per la letteratura prettamente noir, quella di James Cain, David Goodis e, in particolare, di Cornell Woorlich. Sempre in questi anni vi è una propensione al realismo che spinge gli autori ad abbandonare i teatri di posa per portare l’azione – che diventa sempre più preponderante – nelle strade delle città. Lo scopo è di rappresentare la realtà della vita nelle metropoli e di enfatizzare la drammaticità dell’azione come avviene negli inseguimenti finali in La città nuda e I trafficanti della notte. Ma la scelta di campi lunghi per riprendere i protagonisti “crea un effetto di alienazione dell’individuo in un ambiente che lo sovrasta con la sua indifferente grandiosità” (Venturelli).

 

Dal 1949 inizia la terza e ultima fase nella quale “il protagonista del noir sembra sentire il peso dei dieci anni trascorsi nella disperazione e inizia a impazzire” (Schrader). In questi film la violenza diventa sempre più esplicita, sadica, quasi immotivata – o motivata dalla bestialità dell’uomo: si pensi al personaggio di Vince Stone de Il grande caldo che sfigura l’amante con del caffè bollente o ai seviziatori della ragazza torturata a morte in Un bacio e una pistola di cui vediamo solo le gambe nude dibattersi mentre sentiamo le sue urla disperate. E’ come se la violenza sociale avesse ormai superato la fantasia degli autori di noir, come se la denuncia insita nelle opere degli anni precedenti fosse ormai inutile in quanto destinata a rimanere inascoltata. Inoltre proprio in quegli anni il meglio della generazione degli sceneggiatori e registi del cinema noir venne spazzato via dalla caccia alle streghe dell’HUAC, cancellando in pochi anni ogni possibilità al cinema americano di avere un ruolo di rappresentazione della realtà sociale, aprendo le strade del potere a quel tipo di politico corrotto e corruttore che era stato così spesso descritto proprio dal noir. “Soltanto in un’epoca in cui l’anticomunismo era diventato un mestiere rispettato e ambito – scrivono Ceplair e Englund – poteva accadere che un uomo come Richard Nixon riuscisse a costruirsi, con la calunnia e la furbizia, una carriera politica che lo avrebbe tratto dall’oscurità delle sue origini piccolo-borghesi”.

 

 

f. La caccia alle streghe e la fine del Noir
 

Ad eccezione di un saggio di Philip Kemp (Voci dalla fabbrica dell’incubo) è raro trovare approfondimenti sugli aspetti politici del cinema noir. Eppure fu proprio “l’importanza assunta in questi anni da sceneggiatori e registi di sinistra, che vedono nel cinema d’argomento criminale un veicolo importante per un’analisi dell’Americana contemporanea e dei suoi rapporti sociali” – come scrive Renato Venturelli nell’imprescindibile L’età del noir – a spingere la destra americana – in cerca di rivincita dopo i lunghi anni del New deal – ad accusare Hollywood di essere un covo di propaganda comunista. Se oggi questa affermazione può solo far sorridere, l’azione della Commissione per le attività antiamericane non solo distrusse carriere professionali e stroncò vite ma portò anche alla scomparsa del genere noir. Non potendo dilungarci con gli elenchi dei produttori, sceneggiatori, registi e attori che furono accusati di essere o essere stati affiliati al Partito comunista (oppure, e questa era una delle accuse più diffuse, di essere stati “antifascisti prematuri”, ovvero di essersi opposti al fascismo e al nazismo prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti), di coloro che finirono nelle liste nere perdendo il lavoro (costretti per questo spesso ad emigrare), dei pentiti e collaboratori, ecc., credo che si debba constatare che il cinema noir perse molti dei suoi interpreti (da Jules Dassin a Joseph Losey, da Donald Trumbo a Albert Matz, da Lionel Standel a John Garfield a Zero Mostel, da Dashiell Hammett a Dorothy Parker) mentre coloro che ad un certo punto si piegarono alla forza della destra americana e sfilarono in pietosi autodafé (da Kazan a Dmytryk, da Sterlin Hayden a Frank Tuttle) rimasero per sempre segnati da quell'esperienza, non riuscendo più a confermare la qualità mostrate nelle opere precedenti, primo fra tutti Elia Kazan (che cercò di “giustificare” la sua delazione in Fronte del porto) che dovette rinunciare alla preziosa collaborazione di Arthur Miller - che non gli perdonò mai la vigliaccheria dimostrata.

L’ondata reazionaria - iniziata sotto la presidenza Truman - che favorì la caccia ai comunisti e a tutti coloro che avevano sostenuto battaglie di sinistra, si concentrò in particolar modo contro l'industria cinematografica (quale miglior palcoscenico per garantirsi una carriera politica?), impaurendo a tal punto i produttori di Hollywood che per un decennio nessuno osò realizzare opere che potessero essere considerate progressiste o critiche verso la politica americana. Così già nel 1955 il noir aveva ormai esaurito il suo senso d’essere, sopravvivendo ancora qualche anno solo grazie a sparuti film che, più che al presente, guardavano al passato, consapevoli che quel ciclo era terminato e che il cinema noir non esisteva più.


 

g. Un bacio e una pistola

Se abbiamo deciso di terminare questo excursus sul cinema noir americano con un approfondimento di Kiss me deadly di Robert Aldrich non è tanto perchè definito da Paul Schrader il capolavoro del genere ma per il valore emblematico che l’opera assume come anello di congiunzione tra il cinema classico hollywoodiano e il postmodernismo successivo. Per meglio comprendere questa affermazione cito la prefazione al volume – altrimenti inutile e pretenzioso – La dark lady nel cinema noir di Pamela Fiorenza scritta da Gianluigi Simonetti: “Certo non è un caso che il postmodernismo esploda quando il noir entra in letargo, lasciando in circolo una parte della sua energia. […] Il noir autorizzava a mescolare alto e basso, ambizione arty e clichè di consumo, anticonformismo e midcult: il cinema postmoderno ha imparato la lezione e ha continuato da solo, servendosi del noir quando ne ha avuto bisogno”. Molto probabilmente Simonetti ha presente il pensiero di J.J. Abrams – citato da Massimo Locatelli in Perché noir – che considera il noir un’anticipazione “delle forme narrative del postmoderno in virtù del suo carattere labirintico e rizomatico, del passo incerto di alcuni suoi racconti, e dell’uso di forme fortemente soggettive di narrazione”



Un bacio e una pistola è sicuramente un film noir ma, allo stesso tempo, un’opera che mostra un livello di (auto)consapevolezza assente in tutte le produzioni precedenti. Aldrich, al contrario dei registi e degli sceneggiatori degli anni Quaranta, aveva ben presente il significato del suo lavoro e ce lo comunica - con un’ironia già interamente postmoderna – facendosi fotografare sul set, a fianco della cinepresa, con in mano una copia del volume di Raymond Borde e Etienne Chaumeton Panorama du film noir américain. Ecco perché diventa necessario guardare Un bacio e una pistola come una riscrittura ironica e destrutturata dei modelli di riferimento noir, una fusione di citazionismo, cultura popolare e coscienza politica. 

 

 

Robert Aldrich inizia la propria carriera come aiuto regista di Abraham Polonsky, Joseph Losey e Charlie Chaplin, tutti autori condannati alle liste nere, non nascondendo perciò le proprie simpatie verso posizioni politiche radicali.

Che sia stato proprio un regista di sinistra a portare sullo schermo il primo romanzo di Mickey Spillane (Mike Hammer, I, the Jury), scrittore misogino, razzista e apertamente anticomunista (oltretutto con la sceneggiatura del blacklisted A.I. Bezzerides), non può che stupire, almeno finché non inizia la visione del film. Aldrich infatti utilizza il romanzo per ribaltare i topoi del genere poliziesco americano, diventato nel frattempo reazionario e populista, ridisegnando il personaggio del detective privato Mike Hammer che, se nel romanzo di Spillane è descritto come il più duro dei duri, nel film viene fin da subito ridotto (durante l’interrogatorio della polizia) ad uno squallido ricattatore di mariti fedifraghi. Imbattutosi casualmente in un misterioso caso di omicidio, Hammer capisce che l’eccessivo interesse nato intorno al delitto non può che celare qualcosa di grosso, decidendo così di proseguire l’indagine nella speranza di un possibile guadagno personale. Ma la sua scelta alla fine si dimostrerà decisamente errata.

 

Distrutto il mito del detective privato che, pur ai margini della legalità, operava sempre per una giusta causa, Aldrich non risparmia nemmeno alcune “martellate” alle innate capacità investigative di tale figura: la mancanza di comprensione della vera portata degli avvenimenti da parte di Hammer non solo provoca la morte di parecchie persone ma anche la distruzione di una parte di Los Angeles.

Anche nelle scelte stilistiche Aldrich si confronta con le tipiche ambientazioni buie e oscure (e infatti le prime scene sono totalmente avvolte nella notte del deserto californiano) per poi ribaltarle e inondare l’indagine di Hammer di luce solare e caldo estivo, anticipando così tutta quelle opere Neo-noir che sostituiranno la notte metropolitana con le assolate cittadine del sud degli Stati Uniti; ricordiamo qui a titolo esemplificativo The hot spot di Dennis Hopper, Il cuore nero di Paris Trout di Stephen Gyllenhaal, Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin, fino alla recentissima prima stagione della serie TV  True Detective di Nick Pizzolatto.

 

Eppure, nonostante le tante deviazioni dalle “regole” del genere, non vi è dubbio che Un bacio e una pistola sia un capolavoro appartenente al genere noir, come testimoniato dalla scena finale avvolta in profondo buio notturno, squarciato dai lampi di luce accecante dell’esplosione nucleare, mentre Hammer – ferito - viene sorretto dalla segretaria Velda, che egli ha sessualmente umiliato per tutto il film, nel vano tentativo di fuggire verso il mare, lontano dalle urla della dark lady di turno, avvolta nelle fiamme radioattive.

Uno dei momenti più emozionanti e simbolici (e consapevoli) di tutto il cinema noir.