Comune di Reggio Emilia

Calembours

Nel 1984, mentre è impegnato a strappare e incollare manifesti pubblicitari (i suoi collages – décollages), Costa realizza un libro, “Senza titolo”, nel quale, sui décollages sopraddetti, sono presenti interventi a penna (suoi), così che certi spazi sono riempiti da ghirigori di linee, labirinti in forma sformata di oggetti, quasi che, dalla materia informe strappata, fosse possibile ricavare un universo visionario dove tutto è in prova.










E due anni prima, nel 1982, realizzando il libro “Poesie petrose paesine”, aveva utilizzato, quale coperta, un patchwork medievale autentico fatto di frammenti di codici membranacei.  
Questi gli antefatti, accompagnati da appunti che assomigliano tanto a dichiarazioni di intenti: in “Poesie petrose paesine”, Costa ragiona sull’inorganico, a cominciare dal titolo (il paesaggio della montagna coi segni lasciati dall’usura sui singoli sassi; paesine sono quelle rocce che, anche dopo la lavorazione, conservano l’impronta di un paesaggio diroccato), per continuare con la coperta e relativo collage medievale “ante litteram”, di cui si è detto più sopra, fino al testo nel quale, non solo è spiegato il titolo col ricorso all’evoluzionismo (ontogenesi e filogenesi), ma dove l’autore si sofferma su casi tratti dalla storia dell’arte (Botticelli, Leonardo, Boccioni, Ernst), esperienze che invitano a fare i conti con le sbrecciature degli intonaci, le nuvole in cielo, le venature del pavimento, l’asfalto stradale.


Partire dall’indistinto, dall’”inorganico”, dal caos, dal buio, per sfiorare, per un attimo, il senso della luce, per circuirlo, non per bloccarlo, né tanto meno per possederlo. I collages – décollages e le forme caotiche da lui formate hanno un ordine unico di provenienza. Visibile – invisibile, ma soprattutto visionario, se la visionarietà è qualcosa che scaturisce e sfiora per via, paradossale e casuale, e subito dopo è inabissata nel rumore di fondo dell’esistenza.
Grande patafisico, grande metafisico, Jiri Kolar, Mimmo Rotella, sono i nomi che vengono subito in mente considerando questa parte della produzione di Corrado Costa. Eppure, secondo me, questi paragoni sono fuorvianti, perché Costa non si ispirava alle esperienze sopraddette, né coltivava delle ambizioni “artistiche”, con una carriera o una marea di esposizioni. A osservare queste produzioni fa capolino, di tanto in tanto, la sensazione di frugare in un diario intimo, in una pratica che era in parte ufficiale, ma in parte privata, perché era parte integrante del rapporto di amicizia, della confidenza che si era instaurata con l’interlocutore di turno. Infine, i rimandi e le citazioni non si confacevano al nostro, tutto tenuto insieme e in prova, senza fissa dimora, tra l’essere e il non essere, in una ubiquità permanente, dove qualcosa appare, ma poi ecco, giro l’occhio e quella forma è sparita, svanita nel fiume e nel fumo, l’unica maniera per essere sempre dalla parte della produzione, e non cadere nella damnatio della riproduzione.
Per questo elucubratore permanente, scrivere, pensare, meditare, disegnare sono un’unica attività, dove l’aspetto teoretico difficilmente si stacca dal fare concreto, così che lo sconfinamento tra uno schizzo e una applicazione teorica (implicita) è tenuto vivo e “festoso” (nel senso in cui lo intende Giulia Niccolai) da un motto di spirito che chiude il cerchio, ma apre il discorso verso differenti orizzonti. Se, a quanto detto, aggiungiamo la dimensione incontenibile, inafferrabile della vita, avremo la angolatura più adeguata dalla quale osservare il suo lavoro.