Comune di Reggio Emilia

Mss. Regg. C 398

Scheda     Sfoglia il manoscritto (Biblioteca Digitale Reggiana)

Michele Fabrizio Ferrarini, Antiquarium, [1477-1486 ca.].


 Questo straordinario manoscritto, ormai abbastanza noto, contiene una delle più ricche e preziose sillogi antiquariali del XV secolo, dove vengono trascritti quei “fragmenti dilla sancta antiquitate” (Chiarlo 1984) che formavano tema obbligato di studio per chiunque volesse fregiarsi del titolo di umanista, l'esempio più celebre delle quali sono senz'altro le raccolte del Marcanova; non si tratta, dunque, di un vero e proprio codice miniato per come lo si intende in questa sede, ma di un volume in cui il repertorio decorativo (che include disegni di lapidi, monumenti, sarcofagi e di altre tipologie di reperti antiquari) è del tutto funzionale alla stesura del testo (Franzoni-Sarchi 1999).
In questo senso, l'unica eccezione - che motiva anche l'inclusione del pezzo in questo repertorio - è costituita dal bel frontespizio di tipo architettonico, dove un'illusiva profondità è ottenuta grazie alla realizzazione di un frontale di stile classico: oltre ad alcuni elementi tipici di questo contesto (il basamento dalla parte centrale ritratta, la decorazione a bassorilievo, i due capitelli compositi, e altro), troviamo però invenzioni più libere, come la struttura delle colonne e i mascheroni delle loro basi, in un pastiche, certo non strettamente corretto dal punto di vista della classicità del repertorio ma di grande effetto, certo eseguito da un valido artista; la stesura è affidata, come nell'iniziale C (Cum), al semplice disegno, poco rialzato dal chiaroscuro; l'intera struttura viene però smaterializzata dall'impiego abbondante dell'oro in foglia nel fondo, qui evidente segno di aulicità "di rappresentanza" del volume, ma poco congruente alla geometricità della pagina (e difatti mai utilizzata, a mia conoscenza, in altri esempi di frontespizio architettonico raffrontabili a quello reggiano, né in Veneto, né in Lombardia, né in Emilia).
Il mio precedente esame di quest'opera, volutamente generico (Lollini 1997, pp. 95-96), si era basato su quello che a torto ritenevo aprioristicamente un dato di fatto, e cioè un'esecuzione reggiana del codice: ciò che mi aveva portato, senza forse meditarci troppo, a inserire questo esempio nell'ambito del maturo rinascimento emiliano, quando, tra questa zona e la Romagna, le nuove istanze prospettiche e antiquariali di forte compattezza visiva, già ben diffuse in pittura, si iniziavano a diffondere anche nello specifico della decorazione miniata, pur se solo di rado convogliate nel frontespizio architettonico anticheggiante di origine veneta. Questo discorso di orientamento generale può tranquillamente essere ritenuto ancora valido, mi pare, ma necessita di alcune precisazioni. Come aveva già ben visto il Salmi, il decoratore qui attivo - che è assolutamente impossibile identificare nello stesso Ferrarini, data la professionalità specifica dimostrata, anche dal punto di vista tecnico della stesura della foglia d'oro - si apparenta alle invenzioni venete, e in specie padovane, che si collocano nel contesto antiquariale della città di Mantegna e Marcanova; più specificamente, si orienta su quanto era stato elaborato tra la fine del settimo e l'ottavo decennio dal 'Maestro dei Putti' (Armstrong 1981; per aggiornamenti recenti Miniatura a Padova 1999, pp. 301-303, Bevilacqua e D'Urso), richiamato sia nella costruzione generale della pagina sia nella vivacità delle figurine che popolano i finti bassorilievi; le capziose invenzioni estranee al repertorio filologicamente classico (le volute a ricciolo dei basamenti e i mascheroni a essi adesi) paiono invece orientare su aree territoriali meno attente alla replicazione corretta dell'antichità, secondo una lettura "bizzarra". Una possibilità, esplicitata da Salmi, era quella della Lombardia degli ultimi quindici anni del XV secolo, ai tempi insomma del Birago - peraltro fortemente influenzato, a seguito di un suo soggiorno veneto tra fine anni '70 e primi '80 (Miniatura a Padova 1999, scheda 137, pp. 335-336, Gnaccolini), proprio dalla decorazione libraria tra Padova e Venezia, e in specie, appunto, dal 'Maestro dei Putti' già citato; questa ipotesi, che potrebbe anche essere corroborata, come si vedrà tra breve, dal percorso biografico del Ferrarini, non è però l'unica, dal momento che una facies in qualche modo parallela a questa, più inventiva e libera, della restitutio antiquitatis, a livelli assai alti, si può facilmente constatare anche in quell'area emiliana, più prossima a Reggio, che aveva come fulcro Bologna, dove già attorno al '65 Marcanova realizzava la seconda versione della sua Collectio, affidandola a Feliciano, allo Zoppo, come vogliono molti studiosi - ma la proposta mi lascia perplesso - e ad altri disegnatori locali (da ultimi Miniatura a Padova 1999, pp. 255-256, A. De Niccolò Salmazo, con ampia bibliografia, e Il potere, le arti 2001, pp. 232-235, F. Lollini).
Il frontespizio del codice ferrariniano, allora, si palesa come un esempio di caratura formale e tecnica alta, quale poteva aversi non nelle zone venete in senso stretto, ma in quelle veneteggianti per affinità culturale di tipo antiquariale, tramite circolazione di artisti interessati a questo specifico tipo di illustrazione, ma anche grazie alla conoscenza reciproca e personale di chi si occupava dell'accumulazione di materiali e repertori antichi; saremo più precisi tra breve.
Anche se non sono - in senso stretto - esempi da far rientrare in questo repertorio di miniature, bisogna allora osservare i disegni che accompagnano tutto il testo, che, come già avevo detto (Lollini 1997, p. 95) e altri hanno ribadito, non solo per motivi stilistico-qualitativi ma sulla base di dati certi (Franzoni-Sarchi 1999, pp. 21, 24), spettano al Ferrarini solo in piccola parte, corrispondente a quei casi in cui allo specifico lettering la necessità di una corretta replicazione visiva aggiungeva solo schemi grafici di grande semplicità; nei casi più complessi dal punto di vista decorativo, e distanti dalla semplice trascrizione di un testo classico, che prevedevano maggiore abilità, il Ferrarini, autore, copista e - per spendere un termine moderno - grafico dell'opera, si rivolse ad altri personaggi, alcuni di alto calibro, e in grado comunque di raggiungere al contempo un livello maggiore di esattezza figurativa e una grande autorevolezza stilistica; alcuni sono acquerellati, o sottolineati a tratteggio da un valido chiaroscuro. Non mancano momenti significativi, non solo dal punto di vista antiquariale o (più strettamente) documentario, ma da quello artistico relativo all'esecuzione. Data la tipologia degli interventi, che offre pochi parametri di confronto, non mi arrischio a determinare con sicurezza se la mano del decoratore responsabile del frontespizio si ritrovi mai nel resto del volume: ma l'ipotesi è, per lo meno, fortemente probabile. Parte di questi disegni sono stati di recente posti in ambito bolognese, sulla base di un confronto col noto codice di Monaco riferito al giovane Amico Aspertini, dove ritroviamo, oltre che una comune suggestione d'ambiente, pure specifiche derivazioni, che dimostrano come il pittore bolognese conoscesse l'opera ferrariniana e il suo corredo illustrativo: da qui, la proposta (pur in forma ipotetica) di riferire parte dei disegni al padre di Amico, Giovanni Antonio, che è tra l'altro documentato a Reggio Emilia (Franzoni-Sarchi 1999, pp. 22-28).
La cronologia del Mss. Regg. C 398, come già ho avuto modo di dire su base esclusivamente stilistica (Lollini 1997, p. 95), si può collocare genericamente a cavallo tra la fine dell'ottavo decennio del XV secolo e il 1486-87: a parte lo stile, però, ci aiuta a essere più precisi l'esame della genesi dell'opera antiquariale ferrariniana, che - nonostante la sua grande importanza - vanta ancora troppo poche certezze, e si affida a un percorso bibliografico non sempre preciso (da questa situazione, lamentata anche di recente, dipendono alcune delle inesattezze da me purtroppo scritte in altra sede e che qui si cercherà di emendare).
Le tre versioni autografe dell'opera, oltre alla copia reggiana, sono i mss. 57 della Biblioteca Universitaria di Utrecht e Latin 6128 della Bibliothèque Nationale di Parigi (in questa sede, preciso, non si prenderanno in considerazione i programmi illustrativi di questi due volumi); si aggiungono poi altri codici, dovuti a mani diverse, che hanno copiato, parzialmente o in toto, l'opera del nostro erudito. La versione in Olanda pare essere la più antica, sulla base del riscontro che si può fare sul contenuto dell'opera (numero delle epigrafi trascritte, rapporti con le altri sillogi antiquariali): il codice è mutilo del testo della lettera di dedica, che ci è però noto da un altro manoscritto da questo esemplato, il Vaticano Latino 5243; qui, troviamo la data 1477 e la dedica a Ludovico Rodano non più presenti nel volume di Utrecht. La versione parigina è posteriore, priva di dedicatario e di indicazione cronologica, ma con ogni probabilità di poco successiva alla precedente (da notare che Felice Feliciano, altro gran nome dell'erudizione antiquaria, è qui definito correttamente "Regiensis", nonostante preferisse definirsi "Veronensis"). La versione reggiana C 398 dovrebbe essere la più tarda, e si può collocare attorno alla metà degli anni '80, verso la data 1486 (CIL, III, pp. XX, XXV; CIL, VI/1, pp. XLIII-XLIV; CIL, XI/1, p. 171; De Maria 1989, pp. 186, 188, 193; Franzoni 1999b), che deve però essere considerata, appunto, né come ante, né come post quem, dal momento che la genesi di un'opera come l'Antiquarium, nelle sue varie versioni, si pone come vero work in progress, sia dal punto di vista dell'arricchimento dei dati raccolti, sia come realizzazione grafica - situazione d'altra parte del tutto analoga a quello che si riscontra in altri lavori del medesimo ambito (si pensi alla complicata genesi della Collectio di Marcanova, con le due date 1457-60 e 1465, ma una storia che senz'altro inizia ben prima, e che termina forse dopo: Lollini 1998b, pp. 485-486 n. 10; Il potere, le arti 2001, pp. 232-235, F. Lollini). Come pezzo prezioso, anche in chiave di orgoglio municipale, in ambito reggiano - insomma - un vero monumentum, il codice ha avuto una storia conservativa assai particolare; doveva essere conservato in un'arca affissa al muro nella biblioteca del convento dei Carmelitani di Reggio di cui Ferrarini era stato priore, ma venne asportato e recato a Roma nel XVII secolo; passò poi varie volte di mano (e fu anche in possesso di Carlo Cesare Malvasia, il biografo dei pittori bolognesi), finché fu detenuto dai Carmelitani di Parma, che lo restituirono ai loro confratelli reggiani nel 1711; in seguito alle soprressioni, fu poi alienato e portato alla biblioteca pubblica (Tassano Oliveri 1979, pp. 520-524; Franzoni 1999b).
Se il codice viene davvero a collocarsi attorno al 1486, possiamo riaprire brevemente il discorso della sua decorazione, alla luce della biografia ferrariniana: l'esecuzione potrebbe essere stata realizzata a Reggio Emilia, dove Ferrarini fu priore sicuramente tra 1481 e 1482, e forse fino al 1485, poi di nuovo dall'87-88; o a Brescia, dove risiedette occupando analoga posizione tra l'85 e l'87 (Tassano Oliveri 1979, pp. 513-519; Zaccaria 1996); per eccessiva distanza cronologica dalla probabile data del codice si può con qualche tranquillità escludere Firenze (soggiorno di studio presso i confratelli di San Paolo, prima metà degli anni '70) e Mantova (1475-76). Al di là delle consonanze "bizzarre" nelle varianti al repertorio classico, che in effetti ritroviamo in Lombardia, col già citato Birago, attivo per lungo tempo proprio a Brescia, mi pare che il frontespizio della copia reggiana trovi miglior collocazione in Emilia, in un contesto antiquariale derivato come già detto da quello in cui avevano operato in area vicina nomi come Marcanova e Feliciano: quasi trait-d'union, allora, tra questa precoce temperie culturale, e la sua ripresa che, con spirito ormai diverso, affronterà un personaggio come Aspertini, al di là dell'attribuzione, che mi pare peraltro ormai stabilizzata in positivo, del codice di Monaco (ed è probabile che i mascheroni grotteschi usati in modo ormai del tutto differente, dal punto di vista sia percettivo che culturale, dai Cavalletto non trovino specifico motivo d'essere in queste variabili eccentriche del dettato classico). La componente veneta si spiegherebbe allora non tanto con la circolazione generica di novità formali tra Padova e Reggio Emilia (o Bologna, dove Ferrarini fu priore tra 1477, quando datò la dedica della prima versione dell'Antiquarium, e 1479, comunque possibile, se non probabile, polo d'attrazione anche nel periodo in cui l'erudito risiedeva stabilmente nella sua città natale; per quanto può valere a questo proposito, la splendida legatura è stata riferita a un orafo reggiano: cfr. Gorreri 1997, pp. 153, 156-157); quanto piuttosto nel cosciente ricorso a prototipi specifici, per così dire, "targati", e cioè già all'epoca dirette allusioni all'ambito territoriale più attento alla riscoperta antiquariale e filologica dell'antico: non derivazione stilistica, quanto citazione; Ferrarini, e conseguentemente gli autori da lui chiamati a collaborare al codice, conosceva poi assai bene i prodotti di quell'editoria veneta in cui troviamo la gran parte degli esempi del 'Maestro dei Putti': ce lo dicono non solo la logica, ma anche testimonianze dirette (come la lettera a Marin Sanudo in cui si cita Aldo Manuzio: cfr. Billanovich 1979).
Che l'autore del frontespizio possa trovare allora un'identificazione precisa, in ambito bolognese o comunque emiliano, è possibilità a tutt'oggi precoce, forse, ma non incoerente.